Varie

3/2/13 – Il mio digiuno. Rompere le catene della solitudine

di Stefania Sbarra

Scrivo mentre si avvicina il momento di lasciare il testimone a quelli che verranno dopo. Sono quasi passate le 24 ore del digiuno ed in effetti la fame si fa sentire. Ma è una fame  dolce, che si sta insinuando  in punta di piedi, discretamente, quasi volesse rendere onore a questa scelta . L’avverto come una fame che non denuncia una mancanza di qualcosa di normale ma accompagna la compiutezza di un  fatto speciale.
In occasione dei nostri eventi  LAV è capitato di portare  in piazza  pesanti catene disposte sul selciato . Grosse, arrugginite catene messe lì a testimonianza  che qualcuno ne  disegna le maglie più o meno larghe, qualcuno le fabbrica, qualcuno le vende, e qualcuno le acquista. E qualcuno le usa.
stefaniasbarraQualche secolo fa catene analoghe cingevano le caviglie e i polsi degli schiavi, schiavi  umani.
L’apparato culturale del tempo con i suoi  indottrinamenti  non riteneva riprovevole tale costume, anzi il tradurre in catene un uomo,  avvertito dal pensiero dominante come diverso, estrometterlo da quei meccanismi di riconoscimento di identità e di stato di diritto, attribuirli un fattore di inferiorità era ritenuto naturale, quasi fosse nell’ordine  precostituito. Quasi fosse un dovere morale per la salvaguardia della classe dominate, quella che si arrogava  ed esercitava il diritto di supremazia.
Le catene accompagnano  e maledicono il genere umano.  Sono il simbolo ferroso  dell’onta che  collega tra loro uomini di epoche differenti. Qualche secolo  fa  le catene  cingevano le caviglie e i polsi degli schiavi del tempo.  Nell’epoca  attuale le catene hanno ancora un loro peso, non sono scomparse, anzi la loro produzione su scala industriale ne legittima  l’uso. Domanda – offerta .   Tutto perfettamente regolare.
Sono cambiati  solo i destinatari che dovranno sopportarne il peso.
Pure questo sistema reclama il  suo esercito di schiavi. Pure questo sistema ritiene  normale   tradurre in schiavitù  un essere vivente  quasi fosse un eterno tributo da consacrare ad un demone  supremo.
Quel demone che si annida in ciascun uomo che non abiura a priori l’uso delle catene divenendo egli stesso schiavo del suo stesso permissivo pensiero verso la liceità dello sfruttamento di un altro essere. Quel demone che si annida in ciascun uomo che  vede una catena e vi immagina con naturalezza ancorato un nuovo schiavo consentito dalla morale del tempo in  cui vive.
E questo è il tempo degli schiavi animali. Tradotti in catene ogni giorno da una classe dominante di  umani che hanno veicolato su  poveri esseri inermi, lo smisurato potere della loro pochezza  intellettuale.
Ma come nel tempo che fu, ogni tanto qualcuno esce dal coro, intona una sinfonia diversa, si fa promotore di qualcosa che irrompa prepotente e scompagini  l’allineamento ordinato del  pensiero omologato.
Ogni tanto qualcuno si rifiuta di assoggettarsi a regole prestabilite e nella solitudine  della sua  lungimiranza vede oltre un confine già designato. Mentre i tanti si allineano, scendono a compromessi,  sono preda della confusione derivata dalla incapacità di andare oltre, qualcuno tesse la tela di un nuovo progresso culturale  nella solitudine della sua lungimiranza.
Franco Libero Manco ha scritto una pagina bellissima dedicata alla universale solitudine degli animali. Solitudine. Avvertita spesso sin dentro i visceri, ogni qual volta abbia io stessa, cercato di essere una stecca fuori dal coro. Mi   ritrovo in quelle parole,  in quello scritto bellissimo e in questi giorni seguendo  la vicenda di  Davide ho pensato alla sua di solitudine. Ho pensato all’attimo in cui ha deciso, nella coerenza delle sue scelte di vita, di fare qualcosa per sovvertire l’ordine naturale delle  cose ritenuto tale dai più.  A molti danno fastidio le catene che imprigionano la vita e la dignità di un cane, ma lottano magari per allungarle, inconsapevoli promotori delle medesime.
Lui no, lui ha compreso che  occorre rompere  prima di tutto la catena che imprigiona il nostro stesso pensiero quando attribuiamo ad un metodo coercitivo una qualunque valenza  positiva, una ragione di esistere. Lui non allunga le catene, lui chiede siano divelte. Lui chiede sia riconsegnata la libertà ad un essere  vivente  per il  quale lo stato di animale  non abbia più a pregiudicare  l’inalienabile diritto alla dignità della vita.
Nella solitudine del suo pensiero ha deciso di prendere su  di sé una buona parte di sofferenza, e tramite essa  essere foriero di un vento nuovo. Ma questo, se rapportato alla massa di persone che incurante scivola  via da questa  presa di posizione, si traduce in solitudine, confortata però da altri come lui che  hanno compreso l’importanza dell’agire rispetto al parlare. Dell’importanza della coerenza.
Da anni ho divelto le mie di catene, liberando la mente e il cuore dall’azione  livellatrice di un sistema basato sullo specismo , ma lo scotto oramai da  tempo  è la solitudine nelle scelte quotidiane di essere sempre e comunque  dalla parte dell’incatenato. Cane, vitello, mucca,maiale, pulcino che  sia. Povero, vecchio,nero, malato, solo, emarginato, immigrato, indios che sia.
Tra mezz’ora scadrà il digiuno   che mi ha fatto compagnia in queste 24 ore, e pronta a ripeterlo qualora fosse necessario,  l’ho praticato  per aiutare Davide assieme ad altri a  rompere le catene della solitudine nelle scelte  concrete a favore di chi non può difendersi, del debole, dell’ultimo.

Perché esiste certamente l’universale solitudine degli animali. Ma esiste anche di conseguenza una universale solitudine di alcuni uomini  che hanno deciso, come Davide, di essere una stecca fuori dal coro. Di esserlo per aiutare ad esempio un cane  che altrimenti passerebbe l’intera esistenza legato ad una catena più o meno lunga  a discrezione della ragionevolezza e della compassione dell’uomo, ma sempre catena. Sempre schiavitù. Sempre sopruso.

Stefania Sbarra
LAV Sondrio

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